Florence

La versione di Florence: Il lavoro è libertà

 

Florence è appena salita sul primo matatu che utilizza ogni mattina, nel caotico traffico di Nirobi, per arrivare fino al suo posto di lavoro, all’ospedale materno-infantile Neema a Ruaraka, nel Nord Est della capitale. Lei è capo-infermiera ferrista in sala operatoria e da casa sua deve cambiare tre diversi matatu, i pullmini dei trasporto pubblici keniani, per raggiungere l’ospedale. Ci vogliono più di trenta, quaranta minuti, se va bene, per arrivare in genere intorno alle 7,30. Per oggi sono previsti due parti cesarei e un’ernia. Salvo emergenze. Superato il cancello d’entrata s’incammina verso il padiglione della maternità, Alba Maternity Department recita la targa d’ottone che segnala i finanziatori (Unione Europea, Regione Toscana e sponsor privati tra cui la svedese Alba Care Foundation). I principi ispiratori sono ben impressi appena sopra: “Migliorare lo stato di salute di madre e bambino e aumentare l’accessibilità ai servizi preventivi e diagnostici negli slum di Nairobi, Kenya”. 

Florence va di corsa negli spogliatoi del “theater”, la camera operatoria, dove si cambia. Invece della normale divisa blu ed etichetta di riconoscimento, quando Florence opera indossa pantaloni e giacca lilla sbiadito, zoccoli sanitari blu e cuffia turchese. Gli orecchini e la collana, però, li continua a tenere. Poi, ovviamente, c’è la mascherina bianca. 

A 50 anni, una vita da infermiera, da vent’anni collabora con il chirurgo piemontese che vive a Nairobi, Gianfranco Morino, tra i fondatori della ong WorldFriends. Lei è felice del suo lavoro. Ha seguito Morino nei diversi cambiamenti dall’ospedale Nazareth, al Mbagathi hospital fino a qui, all’avventura e al miracolo dell’ospedale per donne e bambini Neema, piccolo gioiello sanitario della solidarietà anche italiana.

Una questione di compassione 

«Ho due ragazzi, uno lavora nel settore IT, l’altro va alle scuole superiori. Sono separata e vivo anche con mia madre, che ha 80 anni – racconta Florence – Sì mio marito era violento ed è finita. Io fin da giovane avevo un senso di compassione, di pietà, volevo aiutare gli altri, ma non sapevo cosa volevo fare. La mia famiglia veniva dal distretto di Kiambu, a nord di Nairobi. Mio padre era un Moran, i “guerrieri” Masai, era mia madre ad essere di Kiambu. Lavoravano entrambi nel sociale e nella scuola. Io ho frequentato le secondarie, poi a 17 anni un training di quattro anni di formazione. Subito ho trovato lavoro nel primo ospedale. Era stata una mia amica che durante una vacanza mi aveva convinto ad indirizzarmi verso questa professione. Noi eravamo cinque figli, ho quattro fratelli maschi, mia madre era molto religiosa». 

La Verità e la Vita 

Si va in sala operatoria, c’è il primo cesareo. La donna si chiama Miriam, l’hanno appena preparata. Florence è seduta nella sua piccola postazione con il computer, lì accanto un divano sotto la finestra schermata e il tavolino basso con acqua calda per il tè o il caffè solubile. Ha immediatamente di fronte a sé uno scaffale con le varie caselle e le cartelle cartacee: pre-ospedalizzazione, modulo del consenso, sicurezza chirurgica, anestesia, post-operatorio, note dell’infermiere in sala operatoria sul paziente, cartella clinica operatoria, congedo pediatrico…La burocrazia non scherza. In alto alla sinistra di Florence è attaccato un piccolo foglio colorato con stampato un gladiolo e il versetto integrale: John 14, 6: Jesus said: I am the Way, the Truth and the Life. No man cometh unto the Father, but by Me (Gesú gli disse: «Io sono la Via, la Verità e la Vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me»). 

A destra sopra la scaffalatura una bottiglia di Moscato, rigorosamente svuotata. «Ne aveva portate due bottiglie l’ortopedico Antonio Melotto…viene due volte all’anno. Buono il Moscato…», sorride l’infermiera. É i momento di spostare la paziente in sala operatoria, Miriam entra accompagnata da un’assistente, Florence le parla e la rassicura facendola accomodare sul lettino operatorio aiutata da un altro infermiere. Arriva l’anestesista e si procede. Mentre Miriam si addormenta, Florence vola nella saletta ambulatoriale vicino al suo studiolo per medicare il piccolo Robin, quella cartella azzurra che era sul suo tavolo “Chris Robinson Abuso”, meno di due anni, una breve medicazione sotto la guancia. Gli sorride e lo fa sorridere, quindi toglie garze e cerotto, disinfetta, il bimbo piange e urla, ma è subito finito. Nuova medicazione. Ci gioca, lo prende in braccio e subito il bimbo si quieta, poi Robin torna nelle braccia della madre. 

Adesso si va di nuovo in sala operatoria, il cesareo inizia con medico, anestesista e assistente e di lì a poco esplode il vagito del piccolo Mutisya, nato alle 10,47 al Neema Hospital, Nairobi. Applausi. La Vita…  

Essere donna in Kenya

«Io ho studiato, ma per tante donne qui non è così, anche per effetto della tradizione e della cultura. Restano senza istruzione – spiega Florence –  La donna, secondo alcuni, dovrebbe diventare madre, pulire, cucinare, sposarsi. Io mi sono sposata, ho avuto due figli, ma poi otto anni fa è finita con mio marito. Due anni prima avevo perso mio padre e mia madre è venuta ad abitare da me. Io amo il mio lavoro, amo parlare con le persone, parlo molto con i pazienti, è importante. Sono felice così. Certo con i figli è stata dura ma anche con loro l’importante è parlare, parlare, parlare sempre. Devo dire che sono obbedienti, con tutte le difficoltà che abbiamo avuto in famiglia. Io sono positiva, lo sono sempre stata..»

Il mio canto libero

Adesso c’è il secondo cesareo, poi è la volta dell’ernia. Non basta. Tutte le pratiche da finire sul computer e poi stampate e firmate. Quindi le visite e l’ambulatorio, la programmazione e organizzazione della sala operatoria. La giornata di Florence è lunga, fino alle 17 circa. Un breve intervallo a pranzo. Poi di nuovo a prendere i tre matatu, fare un poco di spesa e tornare a casa. 

Ma stasera c’è anche il coro. Florence ha fatto una esibizione qui all’ospedale, un successo. «Per me è importante la musica, io vado al coro in chiesa, mi piace molto cantare, soprattutto i gospel. Mi conforta e mi rende felice, quando mi sento oppressa da pensieri e problemi». Una donna felice e fiduciosa. Il canto e il lavoro rendono davvero liberi. 

Maurizio Paganelli

#framevoicereport #ilfemminilediuguale

con il supporto finanziario dell’Unione Europea