Aminat

La versione di Aminat: Ribelle alle ingiustizie e alle prepotenze

 

Esile, minuta, riservata. Aminat, 36 anni, due lauree e due figli, arriva dalla Federazione russa, da quel Daghestan dei poveri e dei miliardari, del petrolio, gas e pesca, Paese di tre milioni di abitanti che s’adagia tra il Mar Caspio, la Cecenia, la Georgia e l’Azerbaigian. Daghestan significa “paese delle Montagne”, ma è conosciuto come “il posto più pericoloso d’Europa”, come raccontava la BBC, a causa delle infiltrazioni del terrorismo musulmano ceceno, la corruzione, l’illegalità, i diritti negati. Certamente la candida Aminat, avvolta nel suo semplice vestito lungo blu fiorato, è esile ma, lo dimostra il suo racconto, è soprattutto una donna decisa, coraggiosa e fiera. La forza del carattere. 

Giustizia e diritti

La sua versione di “femminile di uguale” si poggia sulla rivendicazione della giustizia e dei diritti. Contro i prepotenti. Vuole raccontarlo, anche con fatica e lacrime, come messaggio per il futuro, per i suoi figli, per le altre donne.

Quel Paese da dove è fuggita, a grande maggioranza musulmana, è terra di disoccupazione (80 per cento) e di privilegi (“duecento famiglie che possiedono l’85 per cento della ricchezza nazionale”). Le recenti cronache raccontano di attentati terroristici, attacchi alle chiese ortodosse, operazioni e arresti contro cellule dell’Isis. Corruzione e malversazioni sono un male endemico, anche se oggi Putin avrebbe imposto una svolta politica dopo il fermo a Mosca nel 2018 dell’allora primo ministro ad interim del governo locale. Accusato di frode e appropriazione indebita dei “fondi pubblici mirati a implementare programmi sociali nella repubblica”. E dalle perquisizioni nelle sue residenze, raccontarono i media russi, spuntò tra armi e munizioni una pistola d’oro massiccio.

Un Paese, il Daghestan, dove anche secondo una recente sentenza dei giudici d’appello di Genova “vengono violati i diritti fondamentali dell’uomo” (respingendo così un mandato di cattura internazionale chiesto per un architetto ora in Italia).

Senza un padre

Aminat è nata in una cittadina non lontana dalla capitale Machachkalà, madre impiegata e padre fotografo, al tempo di Gorbacev, gli anni in cui l’Unione Sovietica già traballava, quell’URSS che aveva annesso di forza il Paese caucasico nel 1921.

La prima ferita di Aminat s’incornicia nella memoria e nelle emozioni di una bambina: a 4 anni il padre non dorme più a casa e quando, dopo un anno, lei lo rincontrerà lui farà finta di niente anche quando la vedrà correre a braccia aperte verso di lui. «Mi vide e mi evitò, continuò dritto e si allontanò». Più tardi la madre, entrata poi nella Polizia, raccontò di averlo cacciato perché “faceva brutte cose”. «Così io e mia sorella restammo senza un uomo di casa. E in Daghestan, me ne accorsi col tempo, se non hai un padre o un uomo potente, non sei protetta…».

Aminat cresce curiosa e studiosa, ha voglia di capire e di lottare. Fa sport, è una delle cinque femmine di tutta la scuola che va a lezione di karate. Le arti marziali e il wrestling (insieme al calcio) sono gli sport più popolari. Recentemente il lottatore Khabib Nurmagomedov, al rientro dal combattimento per il titolo mondiale dei pesi leggeri di arti marziali miste a Las Vegas vinto al quarto round contro l’irlandese McGregor e protagonista di una maxi rissa sul ring, sarà accolto dalla folla come un eroe nazionale e invitato con onori anche da Putin a Mosca. «Ci saremmo tutti comportati come te», ha detto il dominus del Cremlino relativamente alla rissa considerata in sede sportiva internazionale un vero schiaffo alle regole sportive. Kbabib, raccontano i fan, si allenava alla lotta a mani nude contro gli orsi. Un mito che si trasforma in leggenda.

La passione per la legge

Aminat è una bambina che non si tira indietro, lotta per raggiungere i suoi obiettivi. «Mi piaceva anche giocare a pallavolo, la ginnastica aerobica, tessere i tappeti, volevo imparare tutto». E così finita la scuola superiore a 18 anni decide di andare all’università e si trasferisce dalla sorella che ha dieci anni di più, è sposata e ha già dei figli. Le cose sono cambiate, l’URSS è crollato, il Daghestan ha deciso di unirsi nella Federazione Russa, i nuovi oligarchi e le privatizzazioni selvagge prendono piede. «Volevo fare legge, giurisprudenza mi appassionava, volevo capire il diritto e le normative, mi iscrivo all’ateneo e faccio due esami, tutto secondo le regole. Promossa a pieni voti, inizio a studiare per il terzo esame quando vengo chiamata dal direttore: mi avverte che per continuare devo pagare, e anche molto». Le regole sono cambiate, il sogno sembra frantumarsi. «Mi guardo intorno e trovo un’altra università statale dove posso laurearmi senza una grande spesa ma in ingegneria. Va bene, mi dico. E allora mi metto a studiare e alla fine mi laureo. Ma dopo mi torna quel sogno, riesco così a trovare dei corsi di giurisprudenza e finisco per ottenere la seconda laurea. Ora sono pronta per lavorare, penso». 

In cerca di lavoro

In quegli anni di studi e amicizie, Aminat affronterà, a 19 anni, di nuovo il padre per chiedergli conto del suo abbandono e della sua insensibilità, di quando lei aveva solo 5 anni e voleva un abbraccio e lui non si era neppure fermato. L’uomo evita ogni risposta, «molti uomini sono così», non però il suo fidanzato di quel tempo, il suo vero, unico grande amore…

L’85% dei giovani in Daghestan sono disoccupati, queste le cifre di oggi. Dieci anni fa non era molto meglio. Lei ha due lauree, su indicazione di amici della sorella fa domande per impieghi statali e viene chiamata da un ministero. Chi la accoglie le fa molte domande, supera i test, le viene fatta una visita medica, un accurato controllo del corpo, «e dopo due settimane fanno controlli sulla mia vita privata». Poi avvengono richieste, sempre più pressanti, più o meno esplicite, poi minacce. Aminat non arretra, conosce la legge e i suoi diritti, minaccia denunce. «Non ho paura, non ho mai avuto paura. Mi accorgo però che se avessi avuto un padre o un uomo che mi proteggeva certe richieste non ci sarebbero state. Devi essere protetta e raccomandata lì». I dirigenti del Ministero ora negano che ci sia un posto, dicono che le donne non possono entrare in quel dicastero. Lei sporge denuncia. Loro passano a minacce concrete. «In cinque vengono a casa di mia sorella di sera, dove c’erano anche i bambini e mia madre, ci minacciano, dicono che devo ritirare la denuncia. Non mi fanno paura, ma ai bambini sì». 

Io non ho paura 

La lottatrice Aminat va in Procura ma riceve solo rinvii e tante attese, incontra persone impaurite e giudici codardi, inviti a desistere. «Tutti mi dicono che hanno famiglia, non possono mettersi contro quel gruppo del ministero che è potente e spietato», racconta con voce flebile la “Donna ribelle” guardando fisso nel vuoto come a vedere srotolato il film della sua vita. E ripete: «Non avevo e non ho paura». Va avanti, comincia lei a minacciare di rivolgersi a Mosca, di passare a livelli più alti. Lei conosce i suoi diritti, ha studiato la legge, vuole che venga applicata. Ma iniziano a spaventarsi le persone intorno a lei, la sorella e il cognato, la mamma, gli amici. «Se tutti lasciano qui non cambierà mai nulla», ripete. Solo il suo fidanzato, conosciuto all’università, le resta a fianco. Il dramma della sua vita è questo: un giorno viene ritrovato il corpo del fidanzato. Lo dice ormai senza apparente emozione. Ucciso. Un dolore che non può essere espresso, che è soltanto suo, non può essere condiviso. Non vi sarà un colpevole per quello che lei chiama un omicidio. Crede di sapere chi sono i killer ma non ha prove. Lei continua con la sua denuncia, non demorde, non ha paura, «la vita è dura», gli intoccabili vanno fermati. Il Procuratore la chiama, ma anche lui la invita a ritirare tutto. Il tempo passa, lei non dimentica. 

La setta di musulmani 

Il Paese si trasforma ma i gruppi di potere restano, come il più duro conservatorismo religioso, la “parità di genere” non abita qui. Il terrorismo incalza, giornalisti vengono arrestati e uccisi, le autobombe fanno saltare negozi dove si vende alcol e i kamikaze le chiese cristiane con i fedeli. 

Una donna sola non può farcela. Incontra un altro uomo, un buon uomo, lo sposa, da lui ha un bambino, Ruslan, che comincia ad avere problemi di apprendimento e di relazione (in Italia, a 4 anni, sarà diagnosticato come disturbo dello spettro autistico); fa la madre e la moglie. Riprova anche a lavorare, accetta di rinunciare a ferie e riposi, dicono che c’è un posto, fanno promesse e poi se le rimangiano. «In quel periodo mio marito viene avvicinato da delle persone musulmane molto devote. Lo portano a pregare. Dicono che lo aiuteranno e che aiuteranno anche me. Loro ci proteggono ma noi dovremo fare qualche cosa per loro. Sono una setta che ha grandi appoggi a livelli alti. Inizio a capire. Mio marito li frequenta sempre di più alla moschea ma un giorno, in una casa dove si riunivano per pregare, vede tante armi, seminascoste». È il tempo dell’arrivo degli sbandati ceceni combattuti dall’esercito russo. I blitz contro cellule segrete di terroristi si ripetono. Aminat vuole riprendersi la sua vita, vuole tagliare i ponti con questo mondo e finalmente anche il marito. Si sentono controllati. Sanno di esserlo. 

La richiesta di un Visto

Decidono di partire e chiedere un visto per l’Occidente: Spagna o Germania. Hanno fretta e spunta l’ipotesi Italia, il visto può arrivare in tempi molto più rapidi. Aminat è di nuovo incinta, per il futuro di questi figli occorre fuggire. 

L’occidentalizzazione del Daghestan passa per i centri commerciali, gli stabilimenti balneari e il calcio. Anche un oligarca amico di Putin acquisterà la squadra della capitale e assolderà a stipendi stratosferici giocatori internazionali a fine carriera o quasi, come Roberto Carlos e Samuel Eto’o (20 milioni di euro di ingaggio diventa il giocatore più pagato del mondo all’epoca), porterà la squadra in coppa Uefa, investirà in campi da gioco per ragazzini e poi, come d’incanto, sparirà. All’epoca della fuga di Aminat entrano in vigore disposizioni più precise per le donne in costume, il bikini è vietato, nasce la “Spiaggia della Sharia”. La piccola famiglia in viaggio verso Vienna si lascia alle spalle i processi e i blitz anti-terrorismo, le donne uccise per la gonna troppo corta, le parole del muftì favorevole alle mutilazioni genitali per tutte le donne, “per eliminare la dissolutezza dalla terra”, a cui fa eco l’approvazione di un ultraconservatore della Chiesa ortodossa. 

A Vienna nasce una bambina che ha ora due anni, Cadidga, ora vive nella provincia di Asti e va all’asilo. «Avevamo il visto per l’Italia e dopo tre mesi dalla nascita siamo dovuti andare via. Prima nel centro smistamento di Settimo Torinese, poi affidati a CrescereInsieme». Una casa, le cure per il bimbo ora di 5 anni e la piccola di 2, la scuola e la normalità, una giustizia-giusta e niente bombe o ricatti. E il laboratorio teatrale. Ad Aminat si illuminano gli occhi, sorride. L’arte, il dramma e la commedia. «Oh sul palco è bello, sì a teatro puoi essere altro, tutto può essere diverso, è meraviglioso. Peccato che poi, scendendo le scalette, tutto torna reale…». Ci sono i figli così importanti, una speranza in terra italiana appesa, ironia della sorte, ad una commissione legale a cui raccontare tutta questa storia. Sul palcoscenico è diverso, ma nella vita, nella vita…c’è l’arte di sopravvivere.

  Maurizio Paganelli

#framevoicereport #ilfemminilediuguale

con il supporto finanziario dell’Unione Europea